Sulla fotografia

“L’umanità si attarda nella grotta di Platone, continuando a dilettarsi, per abitudine secolare, di semplici immagini della verità. Ma esser stati educati dalle fotografie non è come esser stati educati da immagini più antiche e più artigianali: oggi sono molto più numerose le immagini che richiedono la nostra attenzione; l’inventario è cominciato nel 1839 e da allora è stato fotografato quasi tutto, o almeno così pare; questa insaziabilità dell’occhio fotografico modifica le condizioni di prigionia in quella grotta che è il nostro mondo; insegnandoci un nuovo codice visivo, le fotografie alterano e ampliano le nostre nozioni di ciò che val la pena guardare e di ciò che abbiamo il diritto di osservare; la conseguenza più grandiosa della fotografia è che ci dà la sensazione di poter avere in testa il mondo intero, come antologia di immagini; nelle fotografie l’immagine è anche un oggetto, leggero, poco costoso, facile da portarsi appresso, da accumulare, da conservare. Fotografare significa infatti appropriarsi della cosa che si fotografa…”: così inizia “Sulla fotografia. Realtà e immagine nella nostra società” di Susan Sontag (Editrice Einaudi, 2004).

Il testo della scrittrice americana, nata a New York nel 1933 in una famiglia di ebrei-americani e morta, per leucemia, a Parigi nel 2004, è molto attuale e un cardine per la comprensione ragionata della fotografia, i suoi effetti sulla società, oltre a fornire molti strumenti a chi si vuole avvicinare alla fotografia con intelligenza e consapevolezza.
Rilevanti le parti che trattano del reportage, del foto-giornalismo, con i riferimenti alle guerre che hanno segnato la generazione della scrittrice, da quella in Vietnam alle prime immagini che si diffondevano dello sterminio nazista, come i riferimenti alle opere di Diane Arbus, ai maestri della storia della fotografia americana come Walker Evans e Robert Frank. Il libro affronta approfonditamente il problema dell’ambiguità della fotografia come strumento di conoscenza, ovvero del potere che ha la nuova arte di intrappolare una quantità sempre maggiore di informazioni, oggetti, persone e luoghi del mondo. “Insegnandoci un nuovo codice visivo, le fotografie alterano e ampliano le nostre nozioni di ciò che val la pena guardare e di ciò che abbiamo il diritto di osservare. Sono una grammatica e, cosa ancor più importante, un’etica della visione”.

L’immagine fotografica non è solo tramite di comunicazione, ma anche “bene di consumo”, rilevando che “una società capitalistica esige una cultura basata sulle immagini. Ha bisogno di fornire quantità enormi di svago per stimolare gli acquisti e anestetizzare le ferite di classe, di razza e di sesso”.
Innanzitutto, «la conseguenza più grandiosa della fotografia è che ci dà la sensazione di poter avere in testa il mondo intero, come antologia di immagini. Collezionare fotografie è collezionare il mondo». Nelle fotografie e nell’atto fotografico è insita una qualità predatoria che si manifesta a partire dal vocabolario con cui si esprime qualsiasi fotografo, anche il più sprovveduto.

Caricare l’otturatore, puntare il mirino, catturare l’evento sono tutte azioni che evocano immediatamente una partita di caccia, una caccia fotografica.
Molti riferimenti sul perché oggi i “turisti” fotografino così tanto (simulacro dell’attività d’ufficio, tra gli altri motivi): “Lo sviluppo della fotografia s’accompagna a quello di una delle più tipiche attività moderne, il turismo. Per la prima volta nella storia, grandi masse di persone abbandonano regolarmente, per brevi periodi, il loro ambiente abituale. Sembrerebbe loro innaturale partire per un viaggio di piacere senza portarsi una macchina fotografica. Le fotografie dimostreranno in modo indiscutibile che il viaggio è stato fatto, che il programma è stato attuato, che il divertimento è stato raggiunto. Far fotografie, che è un modo di attestare un’esperienza, è anche un modo di rifiutarla, riducendola ad una ricerca del fotogenico, trasformandola in un’immagine, in un souvenir. Viaggiare diventa così una strategia per accumulare fotografie. L’attività stessa del fotografare è calmante e placa quella sensazione generale di disorientamento che i viaggi rischiano di esacerbare. Quasi tutti i turisti si sentono costretti a mettere la macchina fotografica tra se stessi e tutto ciò che di notevole incontrano. Malsicuri delle altre reazioni, fanno una fotografia”.

Fondamentale il discorso sull’etica del fotografo, secondo Susan Sontag il fotografo vive una condizione simile a quella del turista che s’immerge in una realtà, anche dolorosa, con la consapevolezza di poterne uscire in qualsiasi momento, perché c’è un confine rassicurante che si può sempre attraversare tra “l’io” che osserva e “loro” che soffrono, una condizione di privilegio esistenziale.
Tutto può essere visto, anche ciò che era un tempo sconveniente e illecito: ma a quale prezzo? Se la fotografia gode di un rapporto consustanziale con il reale, l’esposizione prolungata alle fotografie comporta una de-realizzazione dell’esperienza del mondo che diminuisce la nostra capacità di interagire con esso. La visione abituale dell’orribile ci anestetizza e ci paralizza: abituati a vederlo nell’immagine, non sappiamo più reagire a esso nella realtà. Questa tesi provocatoria, almeno in quest’opera degli anni Settanta, investe la capacità di denuncia politica e sociale della fotografia stessa, fino a sollevare una serie di problemi ancora di grande attualità. Possono le fotografie, mostrandoci le atrocità e le ingiustizie del mondo, generare una risposta individuale, una presa di coscienza sociale che possa anche scaturire in interventi concreti? Secondo la Sontag non possono, perché le fotografie agiscono sempre in un contesto politico-sociale determinato, il quale definisce le possibilità dei loro significati. Le fotografie, semmai, possono rafforzare e consolidare una serie di valori già in via di formazione. Se l’atrocità dell’evento che l’immagine fotografica testimonia non è sentita come tale, l’immagine di per sé non può nulla: sarà vista come un qualcosa di irreale. Per tutti questi motivi, Sulla fotografia, seppur nato all’interno di una società attraversata e sconvolta da eventi a noi lontani (dal Vietnam al ’68), resta ancora oggi una lettura capace farci interrogare sulle infinite sfaccettature del rapporto fra realtà e immagine fotografica.

Copertina Sontag

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