Mille miglia… lontano
Presentato alla Festa Internazionale di ROMA nel 2006, Mille miglia…lontano del regista Zhang Yimou, mostra il calvario di un padre che non sa darsi pace a causa dell’incomunicabilità con suo figlio. Questo la leva sulla quale Takata fa forza per intraprendere un viaggio all’interno della Cina più remota ed arretrata, tra difficoltà linguistiche e burocratiche, viatico per una conoscenza di se e del figlio che in passato aveva percorso i medesimi sentieri.
La storia narra le vicende di Tataka Gouichi, pescatore giapponese che per la prima volta a bordo di un treno superveloce, lascia il suo piccolo villaggio per giungere a Tokyo, dove sua nuora Rie lo aveva chiamato, dicendogli che suo figlio Kenichi era gravemente malato e voleva vederlo. Giunto a destinazione, scopre in realtà che il suo ragazzo è in ospedale, ricoverato per un cancro irreversibile al fegato, e che ancora rifiuta di vedere suo padre dopo anni di distacco forzato e doloroso. Rie, la moglie di Kenichi, dà a Gouichi una videocassetta realizzata dal marito in modo tale che egli possa saperne di più del figlio. Il nastro contiene un servizio audiovisivo di Li Jiamin, un artista di un villaggio nella provincia cinese dello Yunnan. Nella registrazione, Li promette a Kenichi di eseguire l’opera Mille miglia lontanoper lui se ritornerà il prossimo anno. Quindi Gouichi decide di andare in Cina al posto del figlio malato per filmare la prestazione artistica di Li.
Così intraprende un lungo e difficile viaggio fin nel cuore del Paese di Mezzo alla disperata ricerca di suo figlio e nel tentativo di riconciliarsi a lui ormai morente. Il suo viaggio lo porta ad incontrare molte persone, a provare molte emozioni forti ed è una metafora di un più profondo percorso all’interno della propria coscienza, che gli fa prendere atto dei problemi quotidiani, dell’incomunicabilità nello stesso ambito familiare, dei piccoli ed umani gesti che dovrebbero essere fatti da un padre verso un figlio e della grande difficoltà di essere un buon padre. Magistrale l’interpretazione del protagonista Ken Takakura, che riesce a far partecipare lo spettatore al suo intenso cammino introspettivo, il resto del cast è costituito da attori non professionisti, che riescono proprio per questo a rendere e a ben tracciare con molta eleganza ed immediatezza lo spirito neorealista tipico del cinema di Zhang Yimou. Il regista mette in evidenza nel film le grandi difficoltà linguistiche, il senso di isolamento e l’impotenza di questo piccolo pescatore che giunge prima nella grande capitale giapponese e poi nell’enorme e dispersiva Cina.
Il messaggio che dà al suo pubblico è che bisogna sempre ascoltare il cuore, far parlare i sentimenti, senza perdere un attimo, perché la vita è “qui ed ora”, messaggio importantissimo, in quanto nella frenetica vita quotidiana non si dà peso ai più piccoli/grandi incontri. Un altro personaggio diventa protagonista nelle scene ambientate al villaggio di pietra ed è la natura, il paesaggio, che rende l’uomo una pedina in movimento. Per esempio, nella scena in cui il bambino si allontana dalla vettura in panne, tutti sono relegati nello sfondo, il signor Takata fa eccezione, fino al momento in cui non lo ritrova, poi diventa anche lui una piccola parte della natura.
Il regista racconta il proprio paese dal punto di vista di uno straniero che non conosce il cinese e di aggirare così gli eventuali ostacoli della censura patria, anche nella contrapposizione tra gli aspetti più grigi della società autoritaria cinese e il peso dei sentimenti, degli affetti, dei rapporti interpersonali. È, in fondo, un racconto di formazione affidato alle immagini e ai silenzi più che alle parole. Zhang Yimou torna ad un cinema più intimo ed umanista in cui l’uomo con i suoi sentimenti e contraddizioni torna in primo piano. Il valore della famiglia come nucleo su cui fondare la società, la trasmissione della tradizione da generazione in generazione attraverso i legami patriarcali sono alcuni dei temi toccati da questo intenso dramma di amore incondizionato che procede per ritmi lenti ma inesorabili, e ci suggerisce di imparare a vedere cose e scenari diversi dai nostri, a pensare che il mondo è molto più complesso di quello che conosciamo e se siamo saggi, reagiamo con curiosità e passione pronti ad aprire la nostra mente, affascinati da come l’uomo nella storia, di fronte probabilmente ad una stessa necessità, la sopravvivenza, si è organizzato nelle varie parti del mondo in modo così differente. Zhang racconta di alcuni incontri difficili ma possibili, quello tra un padre e un figlio, la Cina e il Giappone, la tecnologia moderna e la tradizione più antica, la vivacità di un ragazzino e l’arida corteccia di un uomo temprato dal dolore.
Il viaggio di un giapponese nella vastità della Cina dove trova usi e costumi molto diversi dai suoi, ma una cosa unisce i personaggi del film e li unisce a tutti noi, a tutti gli uomini, i sentimenti. Viviamo con tradizioni diverse, con capacità differenziate, siamo più ricchi più poveri, abbiamo religioni diverse, ci muoviamo dentro regole codificate in modo differente che ci costringono a costumi anche contrapposti, ma al nostro interno abbiamo tutti gli stessi sentimenti, amiamo i nostri figli, abbiamo bisogno di rapporti sociali, vogliamo essere considerati, abbiamo bisogno di amare qualcuno. Takakura Ken, il personaggio di Takata indossa una maschera perenne, una copertura dai sentimenti esterni, dal contatto con le persone e dalla comprensione di esse. Come un filo sottile che lo riconduce al ragazzo Takara si rende conto di come si somigliano e di quanto abbia perso non avendo più contatti con lui. Man mano che la vicenda si snoda però, ci si accorge che siamo di fronte ad una delicata parabola sull’incomunicabilità tra le persone, a partire dall’ambito familiare, quello che più riguarda da vicino e che non a caso più fa soffrire.
Come ogni esperienza on the road, tutti gli incontri che il protagonista fa lo aiuteranno ad intraprendere (e noi spettatori con lui) un imprevisto viaggio all’interno della propria coscienza, sì da scoprire e ri-scoprire inesplorati sentieri personali. Per magari rendersi conto che il motivo per cui si era partiti non era poi così determinante e che strada facendo si cambiano impercettibilmente prospettive, per cui non si torna più indietro.