La banda

La banda della polizia di Alessandria d’Egitto viene invitata a suonare all’inaugurazione del centro culturale arabo di una cittadina israeliana. All’aeroporto di Tel Aviv non c’è nessuno ad attendere i musicisti e così, dopo aver chiesto informazioni, decidono di raggiungere il luogo con un autobus locale. Arrivati in una remota e desertica cittadina, capiscono che hanno sbagliato destinazione. Ma non c’è modo di andarsene di lì, perché la corriera passa solo una volta al giorno e gli otto musicisti musulmani sono costretti a chiedere aiuto a qualche abitante ebreo e ad accettare l’ospitalità di Dina, la bella proprietaria dell’unico ristorante del posto. E così tre dormono nel bar, tre a casa di Itzik, due a casa di Dina, cha a poco a poco si fa affascinare dal burbero colonnello che dirige la banda, sparpagliati in varie case, ognuno a vivere una notte surreale ma umanissima. Questa l’idea semplice, ma vincente con cui il regista Eran Kolirin esordisce con l’opera prima “La banda”, (Israele – Francia 2008).

Nella bellissima inquadratura d’inizio, un furgone bianco che uscendo dal quadro, mostra un gruppo di otto persone in divisa in piedi sull’attenti, in attesa di un comitato che non arriverà mai, si fanno avanti i temi della mancanza di dialogo, l’impossibilità dell’accoglienza, l’ampollosità delle divise. Lungo lo scorrere del film, altri temi si faranno espliciti: la musica come linguaggio universale, come veicolo di pacificazione. In un’avventura umana dove una composizione incompleta al clarinetto, poesia e cinema fanno da collante, nei momenti in cui si rischia di non capirsi, dove le differenze culturali stanno per prevalere.

Qui un disguido linguistico si trasforma in un’inaspettata occasione di incontro e di confronto, perché la concretezza delle esperienze personali è l’unica vera specificità da rivendicare, così come le relazioni male assortite di Dina e il dolore per la perdita del figlio e della moglie del direttore della banda diventano il terreno d’incontro e di reciproca comprensione. Impercettibili e casuali momenti di vita “vera”, dove la centralità dei sentimenti, delle emozioni, dell’avvicinarsi all’altro, provoca il cambiamento nei protagonisti.

Le inamidate uniformi sono lo specchio dei disagi blindati dei protagonisti, ma non impediscono la richiesta d’accoglienza e d’aiuto, cosa che li porterà all’autenticità di un incontro, senza muri, senza bombe, carri armati e frontiere, costringendoli a dire qualcosa, anche solo a guardarsi in faccia. Nel corso del film i musicisti suonano sempre da soli, ma all’epigono la fanfara suona finalmente all’inaugurazione del centro interculturale arabo.

Questo film sa mostrare i caratteri dei personaggi, con trame sottili di situazioni sempre garbate, con un’umanità senza pietismo, dimostrando come il cinema sappia raccontare di viaggi dove si possa, sapendo approfittare di piccoli ma fatali errori di pronuncia, incontrarsi e parlarsi, talora anche con silenzi e gesti delle mani. Dice il regista “…abbiamo scambiato il vero amore con i rapporti fugaci di una notte, l’arte con il commercio e abbiamo dimenticato il legame tra gli esseri umani e la magia della conversazione, perché la nostra grande preoccupazione era quanto grande fosse la fetta della torta su cui potevamo mettere le mani…”

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