Il tempo dei cavalli ubriachi
Vincitore della Camera d’Oro al Festival di Cannes 2000, il primo film di Barman Ghobadi, iraniano di etnia curda, “Il tempo dei cavalli ubriachi”, è ambientato nella terra gelida del Kurdistan iracheno. Vicino alla frontiera vive una famiglia di bambini, orfani dei genitori che sono saltati su una mina, ai limiti della sopravvivenza. Madi, il più piccolo dei cinque fratelli, è affetto da una malformazione congenita e necessita di cure continue in attesa di un’operazione chirurgica costosissima. Malgrado gli sforzi del fratello maggiore che si industria facendo da facchino per le merci illegali che oltrepassano il confine, i soldi non bastano mai. Nemmeno la decisione dello zio di dare Nazhad, la sorella maggiore, in sposa ad un ricco iracheno, sarà una soluzione. Dalle prime inquadrature, tutte a misura di bambino, si passa al bianco di una terra battuta dal vento, dove si sentono solo i rumori dei respiri affannosi e dei passi sulla neve.
Una vicenda che parla di viaggi in un mondo remoto, a noi sconosciuto, dove i bambini sono sballottati da una parte all’altra di una terra ostile, in una vita che gli ruba l’adolescenza e il tempo dei giochi. I viaggi sono quelli che i bambini fanno per contrabbandare merci attraverso il confine, portando su e giù carichi pesanti, sui dorsi dei cavalli e dei muli ubriacati per renderli più resistenti al freddo e alla fatica e farli arrivare in cima al passo.
Il film regala figure di rara bellezza psicologica: la giovane sposa ignara, il fratello malato, l’adolescente che sa comportarsi da adulto, impassibile e che bussa alla porta della classe per dare alla sorellina il quaderno di cui ha bisogno e scene indimenticabili, come quando i cavalli cadono nell’alta neve e i grossi pneumatici appesi ai loro fianchi rotolano a valle. In bilico tra documentario e storia immaginaria, l’autenticità dei piccoli dannati della terra è miracolosa, la poesia delle immagini è giocata sul pudore e la dignità dei bambini, attori non professionisti, che evocano il nostro migliore neorealismo. Ghobadi, che ha fatto l’assistente di Kiarostami e appartiene al clan dei Makhmalfbaf, ha scritto e prodotto il film, dando fondo a tutti i suoi risparmi, racconta con rara forza cinematografica e amorosa pietà le storie del suo popolo, con uomini in guerra, bestie ubriache e bambini soli.