Il grande match
Il calcio felicemente globalizzato: è questa l’immagine che ci viene presentata nel divertente e curioso film di Gerardo Olivares “Il grande match”. Il tema centrale è riuscire a vedere la finale del Mondiale del 2002 che ha segnato il trionfo del Brasile di Ronaldo sulla Germania, ma senza tutti i meccanismi dello sfruttamento commerciale delle grandi multinazionali. E’ il desiderio dei poveri, degli umili, di tutti coloro che sono ai margini del mondo “civilizzato e ricco”, che a stento riescono ad avere una televisione e soprattutto un’antenna. E’ un calcio che annulla le barriere, tipicamente maschile, con le donne ai margini, ma universale nel suo tifo. L’incontrastato protagonista delle tre narrazioni è il paesaggio, che ci restituisce, almeno nei primi dieci minuti di proiezione, l’immagine della piccolezza dell’uomo e ci riporta ad un modo arcaico di intendere il rapporto con la natura e ancora bello di rapportarsi allo sport. La prima è l’immensa steppa della Mongolia, immersa nel bianco accecante della neve e nel blu profondo del cielo, con protagonista una famiglia di nomadi che cerca un posto ideale per accamparsi ed attaccarsi alla linea elettrica per sintonizzare sulla partita il vecchio apparecchio televisivo; la seconda è il deserto del Sahara, con le sue dune intensamente gialle, attraversato da un vecchio pulman carico di un’umanità variegata, in cerca di un’improbabile albero di ferro che faccia da antenna ad un televisore a batterie; ed infine, per il terzo, il verde della foresta amazzonica dove vive un gruppo di indios costretto a rubare i fili dell’antenna che le donne hanno usato come collane.
E’ la passione che li fa aggregare, quella che consente agli indios di parlare con i missionari e con chi sta sfruttando il loro territorio, quella stessa passione che ridà la parola al ragazzo mongolo, la passione al di fuori del consumo globalizzato, ormai scomparsa nel mondo occidentale. Il regista, un ispanico documentarista, si trovava in Mongolia nel 2001 per fare dei sopralluoghi e notò una carovana di nomadi che trasportava una televisione sul dorso di un cavallo. Fu così che scoprì l’esistenza dell’albero di ferro. Nei suoi viaggi scoprì che la passione per il calcio era un fenomeno globale: questa l’idea del film.
La famiglia nomade mongola cambia i propri itinerari per poter seguire i cavi elettrici, i Tuareg affrontano un lungo viaggio per raggiungere l’albero di ferro e costringono tutti ad una sosta forzata, l’indio dell’Amazzonia si vanta di indossare la maglia originale di Ronaldo “questa è Nike, mica una di quelle imitazioni che trovi ovunque”. Il film è girato in tre lingue: il dialetto Kazako, il Tamashek e il Tupi, ovviamente doppiato. Il regista è attento agli usi, ai costumi, alle piccole attività di tutti i giorni di queste tre realtà “sacche di resistenza” alla modernità. L’uso di attori rigorosamente non professionisti, ma anzi semplici interpreti della loro stessa vita, rendono ancora più genuine le loro storie, i buffi tentativi, le situazioni esilaranti e talvolta surreali. Racconta Olivares: “Nel corso dei miei viaggi in Niger, Mongolia e nella giungla amazzonica, mi sono imbattuto in persone che vivevano totalmente isolate dalla civiltà, nella giungla più profonda o in mezzo al deserto, e che praticavano la caccia con l’aquila, ma che sapevano perfettamente chi fosse Rolando, con quale numero giocasse e in che maniera Zidane avesse segnato la sua ultima rete. Ed è così che mi è venuta l’idea di realizzare questo film”. Il film potrebbe vivere quasi senza dialoghi, fatta eccezione per l’episodio mongolo dove gli uomini a cavallo si trovano a dover contrattare con la rigida polizia del paese perché non hanno il diritto di installare l’antenna sulla loro tenda, fatto salvo che poi giocheranno insieme una partita di calcio.
La fotografia, curata dallo stesso Olivares, è bellissima, tutta tesa ad esaltare i colori ed i contrasti del paesaggio, reso epico e solenne dall’uso espressivo del grandangolo. Il film non punta il dito contro la globalizzazione, semmai ci fa sentire vicini e molto più simili, culture e popoli così diversi e lontani. Ha il pregio di far riflettere divertendo, anche se talvolta trapela qualche commento che lascia perplessi, come quando il guardiano bianco di una segheria, accampato nella foresta amazzonica e che non teme più gli indios, dice ad un collega: “Da quando gli abbiamo dato un televisore, non sono più pericolosi”.