Cose di questo mondo
Jamal è ragazzo afgano che vive in un campo profughi alle porte di Peshawar, in Pakistan, nell’ottobre del 2001. Enayat, il cugino più grande, vuole migrare a Londra e i famigliari decidono che sarà lui ad accompagnarlo perché conosce l’inglese. Senza documenti, riescono faticosamente a raggiungere la Turchia, attraverso il Kurdistan seguendo le tracce dell’antica via della seta, dopo essere stati fermati dalla polizia e costretti a tornare indietro. Rinchiusi in un container, trasportati con una nave, sbarcano a Trieste. Solo Jamal e un neonato sopravvivono al viaggio. Dopo aver borseggiato una donna, raggiunge la Normandia e con un compagno, si nasconde sotto un tir che attraversa la Manica. A Londra trova lavoro come lavapiatti e come promesso allo zio, telefona a casa per comunicare la morte di Enayat.
Orso d’Oro al Festival di Berlino 2003, l’idea del film è nata perché il regista rimase molto colpito dalla morte di una cinquantina di cinesi che cercavano di raggiungere il Regno Unito. Winterbottom si reca sui luoghi delle riprese con una piccola videocamera digitale, in concomitanza con l’attacco americano all’Afghanistan. Basato su una serie di autentiche testimonianze di vari profughi e non esistendo una rigida sceneggiatura, il regista lascia molto spazio all’improvvisazione dei due attori non professionisti scelti nel campo profughi per i ruoli principali. Le duecento ore di materiale girato si condensano così nel film che, con notevole equilibrio tra fiction e documentario, riesce a mostrare il doloroso “cammino della speranza” alla ricerca di una vita dignitosa, ripresa senza luci artificiali, per “cercare di essere meno invadenti possibili”, come afferma il regista stesso. Immergendosi in una babele di linguaggi, gli attori recitano in lingua (il film non è doppiato) per rendere maggiormente l’estraneità dei due profughi ai luoghi che attraversano.
Il lungometraggio dell’inglese Michael Winterbottom inizia con un commento fuori campo sulla cronaca, che si dissolve man mano a favore della forza delle immagini. Il regista alterna spesso brevi sequenze mosse ed agitate con inquadrature stabili e lente, che seguono le soste dei due cugini, trasportandoci fra trafficanti di uomini e militari corrotti, tra capre e casse di frutta, un viaggio attraverso i luoghi della povertà, su strade sterrate, nella maestosità del deserto, dove un walkman ti può salvare la vita, tra le nevi e il buio delle montagne di confine, costellato di incontri imprevisti. I protagonisti passano dall’aperto cassone posteriore ai pullman, poi su camion, in luoghi sempre più angusti, fino al container della morte. Qui si consuma la drammatica traversata sulla nave, la telecamera è a strettissimo contatto con i volti, nella situazione claustrofobica di un viaggio di 40 ore e contribuisce a trasmettere la sofferenza dei protagonisti, così come il pianto disperato del neonato rende insostenibile l’atmosfera di lento scivolare nell’abisso della morte, in una gabbia che lascia poche possibilità di salvezza.
E’ il viaggio dell’ingiustizia della differenza tra chi è nato in una qualsiasi Trieste o Parigi e chi cerca scampo dalla guerra o dalla miseria. E’ il mondo tutto, lo spazio di questo road-movie, lo stesso mondo attraversato ogni anno da un milione di profughi, dai tanti Jamal, che come in questa storia vera, alcune volte riescono ad arrivare a Londra, per poi scoprire, come nei titoli finali, che in realtà potranno rimanervi fino al compimento del loro diciottesimo anno d’età. Ma sono i silenzi di Jamal, i suoi sguardi misurati, le sue barzellette e le storie divertenti che racconta nei giorni di soste forzate, la partita a pallone o le palle di neve tirate, brevi momenti di normalità precaria, che colgono l’obiettivo di mostrare come le “cose di questo mondo” sono le contraddizioni di un sistema economico mondiale, dove il contenuto di un portafoglio di una donna qualsiasi in un bar di una qualsiasi ricca città europea, può realizzare il sogno di un ragazzo. Alla fine, nella visita alla Moschea, la preghiera per l’amico scomparso accompagna ossessiva i titoli di coda, dove, attraverso il ricordo dell’amico, Jamal sembra riscoprire il legame con le proprie origini, per affermare quell’identità che troppo spesso viene negata nel Paese in cui si è “ospitati”.